"AMOR A PRIMERA VISTA"
di Bernd Schuster
ROCA EDITORIAL DE LIBROS - 2018
Ciò che colpisce maggiormente nel libro è la dolcezza. Il Bernd Schuster che ritroviamo in questa autobiografia, pubblicata nel 2018 e dedicata al suo allenatore delle giovanili Paula Ludwig, è molto lontano dall’immagine di ribelle che si è avuta di lui durante la carriera di giocatore ed in cui l’Autore non si riconosce, pur ammettendo di aver in qualche modo contribuito a crearla.
Il titolo dell’opera, divisa in venti capitoli di agevole lettura, è ispirato da due ambiti della vita di Schuster – quello sportivo e quello sentimentale - che nel tempo si sono incrociati e condizionati a vicenda.
La folgorazione per il calcio è spiegata partendo dalla passione del padre Dietrich (giocatore dilettante anche di pallamano) e soprattutto del nonno materno, che nei primi anni sessanta del secolo scorso ascoltava il racconto delle partite davanti ad una grande radio. Da qui, le interminabili ore passate dal piccolo Bernd con il pallone fra i tre meli ed il pero dietro la casa di Zwicau, e poi una rapida carriera nelle squadre giovanili dell’Augsburg, la cittadina dove la madre Gisela si trasferì per sfuggire all’ambiente opprimente del paese natale, poco prima che il muro di Berlino lo confinasse nella Germania dell’Est.
Per quanto riguarda i rapporti affettivi, la figura più rilevante è sicuramente quella della prima moglie Gaby, una modella conosciuta in una discoteca di Colonia e sposata dopo una breve convivenza. Questo legame, da cui nacque subito il primo figlio Benjamin, fu fieramente osteggiato da entrambe le famiglie. Schuster, in particolare, ruppe per sempre i rapporti con il padre; quanto a Gaby, il fidanzamento con un calciatore – pur così talentuoso e promettente - fu temuto per un motivo che oggi fa abbastanza sorridere, ovvero l’incertezza economica (suo padre le disse “vuoi mangiare tutti i giorni da McDonald’s?”). La giovane coppia, tuttavia, andò avanti per la sua strada e Gaby, che già aveva curato personalmente gli aspetti economici della propria attività professionale, si occupò anche di quelli del marito, divenendo una sorta di procuratrice (una Wanda Nara ante litteram ma decisamente più discreta, si potrebbe dire), il che portò a Schuster molte critiche e l’accusa di essere eccessivamente condizionato dalla consorte. Tutte queste vicende sono trattate nel libro con molta sincerità, e con un profondo rammarico che tornerà nel finale.
A livello calcistico, il racconto dell’esordio nel Colonia è molto curioso, perché avvenne nel ruolo di stopper: dopo Gerd Muller (che non segnò), Schuster marcò con minor fortuna Toppmoller, Uli Hoeness e Klaus Fischer. La cosa mi ha fatto un po’ sorridere pensando a Cannavaro, che iniziò come centrocampista centrale ed era anche soprannominato “Schuster” per la zazzera bionda… un percorso invertito per due giocatori totalmente diversi tra loro, che si ritroveranno nel Real Madrid molto tempo dopo. L’anno successivo (1979/80) avvenne l’inevitabile spostamento a centrocampo e la definitiva consacrazione con l’esordio in nazionale e la vittoria del Campionato Europeo svoltosi in Italia, in cui Schuster fu premiato come secondo miglior giocatore dietro Rummenigge.
Prestazioni così brillanti attirarono l’attenzione di molti grandi club, ed alla fine la spuntò il Barcellona, siglando un contratto di cinque anni. Il libro racconta un adattamento piuttosto agevole al calcio ed alla vita spagnoli da parte dell’Autore (meno da parte della moglie, che ebbe necessità di più tempo). In campo gli furono affidate responsabilità perfino eccessive, ma il rendimento fu comunque buono nonostante l’avvicendarsi di tanti allenatori (tra cui Helenio Herrera, Laszlo Kubala e Udo Lattek); eppure, il Barcellona non riuscì ad interrompere il dominio basco di quegli anni, e proprio in un match giocato a Bilbao avvenne l’infortunio al ginocchio che ha condizionato la carriera di Schuster, facendogli saltare i mondiali di Spagna e lasciandogli una leggera zoppia che rese la sua andatura ancor più compassata.
Dopo la riabilitazione avvenne un altro fatto importante e piuttosto emblematico della personalità dell’Autore. Si tratta dell’addio alla nazionale tedesca, a soli 22 anni, originato da un malinteso abbastanza banale (dopo una partita amichevole, Schuster rientrò in Spagna per giocare una partita di coppa del Re con il Barça, non partecipando ad una festa organizzata a Stoccarda in onore di Hansi Muller), cui seguirono polemiche furibonde con la Federazione ed un’improvvida intervista in cui il giovane Bernd dichiarò che non avrebbe più risposto alle convocazioni del C.T. Così accadde per qualche tempo; in seguito, un'altra intervista a suo dire male interpretata da Beckenbauer provocò la prosecuzione dell’ostracismo fino al 1990, ed infine nel 1994 la ventilata convocazione da parte di Berti Vogts non trovò conferma. Un po’ come nella vicenda familiare sopra narrata, la reciproca ostinazione non consentì di superare contrasti non particolarmente gravi, con danni evidenti per entrambe le parti (Schuster, in particolare, si rammarica di aver “mancato tre finali mondiali”).
Il capitolo successivo del libro è dedicato ad una piacevolissima sorpresa che l’Autore trovò al rientro in squadra dopo l’infortunio: Diego Armando Maradona. Di lui Schuster, che tra le altre cose era il compagno di stanza durante le trasferte, racconta le cose che abbiamo in seguito sentito dire dai compagni del Napoli: la tecnica cristallina, la leadership assoluta, gli eccessi, la corte di amici e finti tali. Dopo due anni caratterizzati da poche gioie (la Copa del Rey, il clàsico di Madrid vinto in maniera travolgente, il buon rapporto con Menotti) e molti problemi (la famosa entrata di Goikoetxea che gli frantumò il malleolo, la successiva epatite virale, i dissapori con l’allenatore Lattek, la rissa selvaggia al Bernabeu contro l’Athletic di Javier Clemente), Maradona lasciò il Barça, con gran dispiacere di tutto l’ambiente blaugrana. A fine capitolo Schuster non si sottrae al gioco della memoria e prova a fare un confronto tra Maradona e Messi: la bilancia pende a favore di Diego, per i motivi solitamente evocati (maggiore personalità ed impatto sulle vittorie di squadre di media caratura, compresa la nazionale).
La Liga, fin lì sfuggita, fu conquistata proprio l’anno successivo, con l’arrivo di Terry Venables e Steve Archibald, e portò nel 1986 il Barcellona a giocarsi la finale di Coppa dei Campioni contro lo Steaua Bucarest. La partita di Siviglia contro i rumeni, tanto brutta nei tempi regolamentari quanto memorabile nella sequenza dei quattro rigori (su quattro) sbagliati dal Barcellona, è stata un’altra tappa fondamentale della carriera di Schuster. L’Autore afferma che sottovalutarono colpevolmente il valore degli avversari, per poi soffermarsi all’episodio che portò alla fine della sua esperienza catalana. Sostituito alla fine dei tempi regolamentari, Schuster non accettò la decisione dell’allenatore (era stato recuperato in extremis dopo giorni di febbre alta, ma si sentiva di continuare ed era il primo rigorista): andò direttamente negli spogliatoi, si cambiò e lasciò lo stadio Sanchez Pizjuan, rientrando in albergo con l'ausilio di un attonito tassista. Nel libro Schuster sostiene che l’errore, di cui riconosce la gravità, fu utilizzato per attribuirgli ingiustamente la responsabilità della sconfitta e per trovare un capro espiatorio su cui concentrare l’enorme frustrazione del club.
In ogni caso, come aveva promesso quella sera il presidente Nunez, il tedesco non vestì più la maglia del Barça e passò l’anno successivo sostanzialmente fuori rosa (furono ingaggiati Lineker e Hughes, poi sostituito dal rientrante Archibald). L’arrivo di Aragones e poi di Cruyff in panchina non portò novità positive per Schuster, che alla scadenza del contratto dovette trovarsi una nuova squadra. Nei mesi precedenti aveva ricevuto offerte interessanti da Marsiglia e Roma e poi praticamente firmato con la Juventus: l’accordo non si chiuse per un motivo che scandalizzò la dirigenza bianconera, ovvero l’assenza di una scuola tedesca per i tre bambini (la più vicina era a 90 km da Torino; un incredulo Boniperti gli propose invano la scuola svizzera in cui aveva mandato suo figlio). Con dispiacere, il tedesco rinunciò ed alla fine fu contattato da Leo Beenhakker, che lo portò al Real Madrid.
Il racconto dell’esperienza madridista è molto interessante perché descrive benissimo le differenze con l’ambiente del Barcellona ed il modo in cui Schuster fu aiutato dai veterani (soprattutto l'ex rivale Gallego) a calarsi nella nuova realtà. In campo i risultati furono subito molto soddisfacenti, con la vittoria della Liga e della Copa del Rey; il rammarico fu la coppa dei campioni, con la famosa eliminazione da parte del Milan. A questo proposito Schuster fa delle affermazioni abbastanza spiazzanti, molto diverse dai racconti e dalle opinioni più frequenti su quel doppio confronto. A suo avviso il famoso 5-0 di Milano dipese da uno strano clima negativo prima della gara e dalla sottovalutazione della squadra di Sacchi, che nella gara di andata non li aveva particolarmente impressionati… Un’interpretazione tanto singolare quanto interessante. Quella debacle portò alla sostituzione di Beenhakker con Toshack, ma secondo l’Autore lasciò una sorta di timore reverenziale verso il Milan (lui la definisce “psicosi”) che produsse un’altra eliminazione nell’anno successivo, in cui il Real ebbe un rendimento altissimo nella Liga (ben 107 gol, di cui 38 di Hugo Sanchez) e che Schuster considera il più divertente della sua carriera. Anche per questo, fu molto grande il suo rammarico quando il presidente Mendoza gli annunciò che non sarebbe stato confermato (arrivò Prosinecki).
Seguì un periodo di quattro mesi passato senza squadra, fino alla chiamata dell’Atletico Madrid. Un altro passaggio sportivamente molto traumatico, che però, a differenza del precedente, fu vissuto con un forte spirito di rivalsa, ben rappresentato dalla grande esultanza di Schuster quando in campo apprese che il Real aveva perso il titolo a Tenerife (un episodio per cui l’Autore dichiara di provare tutt’oggi vergogna).
Anche le stagioni con i colchoneros, sotto la guida di Aragones, di Ivic e del presidente Gil (che trasmise a Schuster la passione per i cavalli) vengono descritte come molto positive. Seguì il rientro in Germania dopo 13 anni, al Bayer Leverkusen, con ottime prestazioni che fecero addirittura ipotizzare un rientro in nazionale. Gli acciacchi ed i contrasti con il tecnico Ribbeck (che tra l’altro lo schierò come centrale di difesa contro il Parma di Asprilla, esponendolo ad una magra figura) portarono Schuster a chiudere la carriera nel campionato messicano, in cui ritrovò alcuni vecchi campioni come Butragueno.
Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati alla carriera di allenatore, iniziata nel Fortuna Colonia già durante il corso di formazione federale e proseguita con Colonia e Xerez, prima dell’esperienza allo Shakthar (di cui l’Autore racconta episodi molto particolari e non particolarmente edificanti) e del rientro in Spagna al Getafe. In questi anni Schuster si è guadagnato la chiamata del Real Madrid ed ha conosciuto Elena, per la quale ha lasciato la moglie Gaby e che ha sposato in seconde nozze.
Al Real fu chiamato a sostituire Capello, che l’anno precedente aveva vinto ma non convinto. Finita l’epoca dei galacticos, la rosa fu potenziata con innesti mirati (Robben, Snejider, Pepe), decisivi per la vittoria della Liga. L’anno successivo, però, la squadra perse forza per infortuni e qualche cessione ed i risultati peggiorarono, fino all’esonero, dopo il quale per più di due anni al tecnico non arrivò alcuna nuova proposta. Da ultimo, vengono descritte le esperienze al Besiktas - in cui Schuster si è trovato abbastanza bene, a parte i problemi della figlia piccola con la scuola – ed al Malaga del magnate Al Thani, in cui gli iniziali programmi trionfalistici sono stati ridimensionati e non sono giunti i risultati sperati.
Il libro si chiude con un capitolo dedicato alla famiglia, o meglio alle due famiglie che l’Autore ha costituito e che spera possano avere un rapporto sereno. Qui riemerge il ricordo del padre, scomparso nel 2003, con una frase che descrive un percorso esistenziale ma pare anche il tentativo di elaborare quel rimpianto: “la vita mi ha insegnato da giovane ad essere orgoglioso e da grande ad essere umile”.
Riecco, dunque, il tratto di mitezza da cui è partita questa recensione. Nel complesso il libro mi è piaciuto molto, anche se il giudizio è in qualche misura condizionato dal grande apprezzamento che ho avuto per il giocatore Schuster, soprattutto negli anni in cui la sua corsa è diventata più lenta e pesante, facendo emergere ancor più le grandi doti di "passatore" in un calcio bello e un pò antico.